STEFANO MARIA BARATTI
Vive e lavora a New York dove svolge attività di artista, sceneggiatore, traduttore e pubblicista. Ha conseguito una laurea in regia cinematografica presso la State University of New York at Purchase e una laurea in storia dell’arte presso la New York University. Pubblica scrittura critica e webwriting e si occupa di recensioni, biografie, presentazioni su pieghevoli, comunicati e articoli in italiano o in inglese.
“Noi non siamo esseri umani che vivono una esperienza spirituale. Siamo esseri spirituali che vivono una esperienza umana.”
- Pierre Teilhard de Chardin
L’iconologia di gesti rituali rappresentata nell’arte cristiana nel corso dei secoli per connotare i fenomeni di misticismo nella contemplazione della dimensione del sacro, propone una serie di processi emotivi che si ascrivono ad una conseguenza precisa dell’azione patetica, quella della commozione, evocata di norma nella sua accezione greco-antica di «simpatheia» (“patire insieme”), oppure nella retorica gestuale dello stupore, il gesto teatrale che manifesta l’istante della teofania.
A partire dalla Controriforma cattolica, il dialogo gestuale col trascendente si manifesta in vari modi tra estasi e visioni, implicando un’esperienza diretta, “al di là” del pensiero logico-discorsivo e a seconda della forza interiore del soggetto: nella dinamica del make believe barocco, ci sono anime che restano prive di sensi, altre che levitano, altre restano in piedi, in ginocchio, ci sono occhi «rovesciati all’indietro», come la «visione della visione» nei famosi voli di San Giuseppe da Copertino, oppure in veri e propri corpi abbandonati all’estasi marmorea – come nel caso della terziaria francescana Ludovica Albertoni di Bernini – che in chiave di lettura freudiana richiama la «fase di plateau» preliminare all’orgasmo, una fenomenologia di un rapimento mistico che coniuga l’elevatissima spiritualità in una stabile ed elevata tensione sessuale. Le pose corporali della preghiera sembrano quindi interessare sia sensi del corpo, sia la parte immateriale e trascendente (l’anima) e sono considerate una specie di «captatio» del divino nella sintesi di forme razionali e coscienti, ovvero più raramente in stati alterati di coscienza (come la trance medianica-mistica) innescando reazioni psicofisiologiche altalenanti tra la sfera sacra e quella profana.
- Sul versante dell’approccio «emozionale» dello spettatore, la diffusione della polisemia dei gesti rituali nell’opera d’arte attraverso l’atteggiamento dello «stupefatto» (specialmente nel Cinquecento e nel Seicento, con Charles Le Brun che codifica graficamente la maschera della venerazione e del rapimento creando una “griglia mobile” delle passioni) apre la disciplina storico-artistica a innumerevoli campi di indagine in relazione all’inconscio: dalle semplici prosternazioni e genuflessioni, agli sguardi estatici e ai gesti oranti, dalla mano benedicente, o «dextera domini» della liturgia, ai voli mistici e infine alle stigmate, segni fisici della Passione di Cristo, attributi iconografici di San Francesco e di Santa Caterina da Siena.
Attraverso i secoli, la variegata gamma di opere che compongono il corpus del dialogo con il trascendente, ha conosciuto una tassonomia compilata secondo le varie correnti artistiche ed esigenze estetiche che ancor oggi continuano ad interrogare i vari ambiti che costituiscono il rapporto tra arte e religiosità.
In quest’ottica, il contributo proposto nella serie di incisioni intitolate «Esperienza mistica di sant’Angela da Foligno» dell’artista perugina Giovanna Bruschi – una tra le voci più singolari nel panorama artistico umbro negli ultimi decenni – attingono la propria ricchezza espressiva da eterogenee esperienze mistiche che ne delineano un percorso originale e in continua evoluzione.
Dopo un periodo di intensa sperimentazione, che caratterizza soprattutto gli anni Settanta, la tecnica prediletta di Giovanna Bruschi diviene l’acquaforte, il sistema di incisione indiretta della matrice con l’utilizzo di sostanze corrosive che mordendo il metallo tracciano i solchi sulle lastre. In esse sono ben visibili i tratti dominanti della sua arte, e le varie fasi di un linguaggio maturato attraverso le ambientazioni e paesaggi “totali” e misticheggianti, aderenti alla lezione dei suoi maestri, tra i quali Gerardo Dottori, di cui inizialmente ripropone come leit-motif la formula paesaggistica di «aeropittura» futurista. Ne nascono composizioni ritmiche munite di una grammatica visiva (forme, linee, sfumature) che ripetono moduli decorativi, forme crescenti e decrescenti in ritmi concentrici o radiali espandendosi in senso circolare dall’interno all’esterno o viceversa, forme quindi «assetate d’Oltre» come sottolinea la sua stessa biobibliografia.
Al di là delle assonanze stlistiche con il futurismo, attenta e sensibile interprete dei profondi cambiamenti nel percorso evolutivo della coscienza cristiana, l’artista si allontana da qualsiasi patetismo figurativo e da ogni sentimentalismo malinconico per evidenziare un’intonazione astratta formulata da una serie di indicatori del movimento dell’anima: composizioni di obliquità e asimmetria in una dinamica assorta e dolente che manifestano la discesa nei meandri inaccessibili del proprio essere e passaggio obbligato nella vita dei santi attraverso la «notte oscura dell’anima», periodo di tristezza, paura, angoscia, confusione e solitudine, necessario per potersi avvicinare a Dio. Questo concetto – il viaggio del mistico nelle avversità tenebrose incontrate nello staccarsi dal mondo sensibile – delineato dal presbitero e poeta spagnolo Giovanni della Croce, al secolo Juan de Yepes Álvarez (1542 – 1591), è presente nel misticismo cristiano fin dai tempi dei Padri della Chiesa.
Nelle esperienze mistiche della terziaria francescana Angela da Foligno (1248-1309) – recentemente canonizzata da papa Francesco nel 2013 – Bruschi ripercorre le tappe dell’autobiografia spirituale della santa, interpretando con le sue incisioni le sensazioni dei «trenta passi» che l’anima di Angela compie, sull’esempio di san Francesco d’Assisi, raggiungendo l’intima comunione con Dio, attraverso la meditazione dei misteri di Cristo, sull’Eucaristia, e intorno alle tentazioni e alle penitenze.
Le acquaforti dell’artista umbra, toccando i vertici del suo virtuosismo tecnico, adottano una grafia inquieta e fluida, che coinvolge lo stesso bianco della carta. Bruschi incide sulla vernice, con tratti paragonabili a quelli di una penna, la tensione di un chiaroscuro determinato da forme appuntite e allungate, ripetendo spesso la sequenza di immagini tracciate con particolari tipi di sfocatura, in un dinamismo organizzato da linee di forza che catturano e trasportano lo spettatore in un vortice dominato da un senso di religioso silenzio.
In questi spazi è ravvisabile il dolore dell’anima tra psicopatologia e misticismo, quel caos interiore descritto dai mistici di tutti i tempi, dalle visioni della santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), alle testimonianze di Teresa d’Avila (1515-1582), e si ripropongono le trasformazioni delle forme materiali, in un tutt’uno con il movimento autocosciente del pensiero. In questa serie di incisioni, la percezione del movimento non è limitata a motivo visivo ricorrente, ma si impone come principio di organizzazione che soggiace alla pulsione creativa. L’artista rappresenta una sorta di linguaggio-oracolo, quasi un codice di una matematica occulta, ovvero una «conoscenza interna», vicina alle forze e alle forme ambivalenti della natura, in cui si manifesta sia l’anima come «viriditas» dell’uomo, sia la dualità essenziale delle cose.
In un’epoca fondamentalmente dominata dall’edonismo, e dall’egemonia di un «Homo destitutus» che ha perso il suo riferimento a Dio e l’ordinamento voluto da Dio, a favore di una realtà colma di angoscia, nelle incisioni di Giovanna Bruschi è possibile cogliere, nella geometrica e rigorosa tornitura delle sue forme, delle assonanze con sequenze stroboscopiche che ricostruiscono entro certi limiti l’effetto di un film che propone un lieto fine: una luce che brilla in fondo alla notte oscura dell’anima.
Stefano Maria Baratti
[Giovanna Bruschi si diploma presso l’Istituto d’Arte Bernardino di Betto a Perugia, sua città natale; consegue rapidamente la Licenza in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci, annessa allo stesso Istituto, vivendo l’esperienza culturale-formativa con straordinari maestri come Gerardo Dottori, Diego Donati, Adelmo Maribelli e Dante Filippucci. Successivamente ottiene l’abilitazione per l’insegnamento di Disegno e Storia dell’Arte iniziando l’attività di docente in vari Licei e presso l’istituto sperimentale I.T.A.S. Giordano Bruno di Perugia, dove oltre all’insegnamento della Storia dell’Arte nell’Indirizzo Linguistico, coordina vari gruppi di insegnanti e studenti impegnati nelle attività di progetto, trasferendo loro il suo entusiasmo. Frequenta parallelamente, con una certa sistematicità, lo studio del celebre incisore Diego Donati, che considera suo maestro.
È vastissima e qualificante la sua produzione, soprattutto in tematiche mistico-teologiche. In questo ambito si aggiungano le opere pubblicate presso Edimond, Città di Castello: Angela da Foligno. La vera povertà (2001) e Rita da Cascia. Tra storia e tradizione (2002). È presente con le sue opere più pregnanti in collezioni pubbliche, private e museali. Inserita in circoli culturali e Accademie, ha ricevuto nella sua città il titolo di Accademico di Merito dall’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci; è socia Ordinaria dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi; nel maggio 2007 riceve il “Premio alla Cultura” Il Corimbo“Pensiero e Immagini” VI Edizione ed è iscritta all’Albo D’Oro del Premio come Socia Onoraria. Dal 1985 figura nell’Archivio per l’Arte Italiana del Novecento presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze e dal 2005, nell’Archivio Bioiconografico della Galleria Nazionale dell’Arte Moderna di Roma. Importanti sono i concorsi vinti, così come le mostre personali e collettive che hanno trovato accoglienza calorosa in ogni parte d’Italia.]